Quest’anno sono stati trasferiti in hospice solo il 4% dei pazienti terminali curati al domicilio, rispetto al 20% degli anni precedenti
Durante il lock down dovuto all’epidemia da covid-19 abbiamo assistito ad un fenomeno né clamoroso né straordinario, ma proprio per questo notevole: l’aumento delle assistenze di cure palliative che si sono concluse al domicilio. Quest’anno sono stati trasferiti in hospice solo il 4% dei pazienti terminali curati al domicilio, rispetto al 20% degli anni precedenti. Le ragioni sono comprensibili: vi è stato un frangente ad inizio epidemia in cui l’accesso agli hospice era precluso ai pazienti perché non vi era possibilità di effettuare in tempo utile il tampone pre-ricovero che documentasse la negatività all’infezione. Per un periodo più lungo la possibilità di visitare i pazienti ricoverati negli hospice è stata drasticamente limitata, portando le famiglie a privilegiare l’assistenza dei malati a casa per non far loro mancare il conforto della presenza dei propri cari. Questa scelta, fortemente condizionata dalle circostanze sanitarie appena descritte, si è dimostrata adeguata e non abbiamo registrato un aumento di criticità riferibili al ridotto numero di trasferimenti in hospice. Dal nostro osservatorio di operatori di un’unità di cure palliative domiciliari la famiglia si è confermata luogo privilegiato delle relazioni, contro l’isolamento e solitudine. Il lock down si è rivelato paradossalmente un alleato, grazie a dinamiche come lo smart working che hanno permesso ai famigliari dei pazienti di poter partecipare maggiormente all’ assistenza nel ruolo di caregiver. L’auspicio è che le potenzialità della famiglia riemerse durante l’emergenza covid-19 possano essere valorizzate e sostenute anche in tempi ordinari, così da smentire anche lo scetticismo di alcuni rispetto alle prospettive delle cure palliative domiciliari, scetticismo derivante dal presunto venire meno della solidità e dalle risorse delle famiglie nella società attuale.