Professioni sanitarie, territorio, domicilio: tra bellezza e responsabilità personale

Il 24 novembre si è tenuto il secondo degli appuntamenti “Professione e passione” promossi dal Centro Culturale di Milano, in collaborazione con la Fondazione Maddalena in occasione dei 30 anni del riconoscimento regionale di quest'ultima come Ente erogatore di servizi sanitari.  Il tema (e la questione posta in dialogo) era “La cura a casa: perché è affascinante per un professionista sanitario? Attese, sfide ed esperienze positive sul territorio”.

Il dibattito – moderato da Francesco Ognibene, caporedattore di Avvenire – ha visto la partecipazione di Luciano Riboldi (presidente FMG), Orsola Sironi (medico oncologo, direttore sanitario FMG), Valeria Borsani (infermiera e formatrice FMG), Marta Abrate (Care manager ADI Minori FMG), Marta Toffoletto (Docente e Tutor Corso di Laurea in Infermieristica dell'Università degli Studi Milano-Bicocca), Amedeo Capetti (Infettivologo, Ospedale Sacco Milano), Renato Ferorelli (fisioterapista FMG).

L'appuntamento è stato arricchito e reso dinamico dall'intervento iniziale di Giacomo De Petri, studente di medicina, e da altri interventi di studenti (sia di medicina che di infermieristica) che hanno condiviso la scarsa conoscenza dell'ambito della sanità al domicilio, congiunta alla voglia di “saperne di più, anche perché poi nella vita quotidiana ci troviamo molto spesso ad avere a che fare con situazioni di amici o famiglie che si trovano a seguire pazienti impegnativi al domicilio”.

La serata è stata ricca di tanti interventi esperienziali, con una grande attenzione alla condivisione semplice e diretta della propria esperienza professionale. Per Sironi è fondamentale “accorgersi che al domicilio si riguadagna uno spazio di relazione e all'interno di questo spazio il bene passa oggettivamente”. Per Borsani il domicilio può essere la riscoperta che “si lavora per la cura della persona, e non per prestazioni sanitarie”. “Il fisioterapista – ha detto Ferorelli – durante le sedute scopre che il vero atteggiamento in cui porsi nella sua attività è mettersi nella prospettiva del paziente. Ed allora ogni piccolo miglioramento è un pezzo di felicità raggiunta”. 

Marta Abrate, che ha rapporti soprattutto con bimbi e famiglie, ha sottolineato che “si entra in casa in punta di piedi, cercando di costruire un'alleanza terapeutica con i piccoli e con le loro famiglie”. “Non siamo noi gli artefici della guarigione del paziente”, ha poi affermato Amedeo Capetti, “Anzi siamo entrambi – medico e paziente – in cerca di comprendere da chi dipendiamo, e cosa da senso all'esistenza di entrambi. Questo è qualcosa che dobbiamo assolutamente cercare di condividere con gli studenti, perché è questo che vince il burn out professionale”. Sul tema formativo Marta Toffoletto ha ricordato che “l'università deve aiutare lo studente a ragionare sugli aspetti sanitari complessi ed in questo senso la sfida del domicilio è totalizzante, perché toglie la rete di protezione rappresentata in un qualche modo dall'organizzazione ospedaliera”.

E' la bellezza professionale di un ambito poco noto come quello domiciliare, quella che è emersa durante l'incontro milanese. Una bellezza che non può essere sottaciuta, ma che anzi (come richiesto dagli studenti presenti) dovrebbe essere condivisa, espressa e divenire laddove possibile anche oggetto di periodi di training formativi specifici proprio all'interno dei programmi di studi. Non a caso il moderatore, Francesco Ognibene, ha affermato in chiusura di incontro che “senza l'ospedale intorno la presa in carico coinvolge di più la responsabilità diretta dei professionisti. Sarebbe utilissimo che questo senso di responsabilità fosse maturato già durante il periodo di formazione”