Nella vita di tutti i giorni è raro che ti si chieda di raccontare la tua storia e anche quando accade capita di non trovare le parole adatte, le sfumature giuste, il coraggio di essere autentici. Quella storia deve piombare da fuori, come quando accade che i libri ci scelgano e gli autori diventino amici a cui vorremmo telefonare alla fine della lettura, per chiedere come fanno loro a conoscerci o dove hanno sentito la nostra storia. Quella storia è uno specchio che ti sorprende a esclamare: questa è la mia, questo sono io, ma non avevo le parole per dirlo.
Ci sono fatti, ci sono milioni di fatti, ma non li sappiamo più leggere, non li vediamo più, perché i fatti sono muti. La realtà invece parla, forte e chiara, a chi la vuole ascoltare. Accade anche nel lavoro, quando lo intendiamo non (solo) una fatica, un supplizio da sopportare dalla mattina alla sera per rendersi indipendente dal punto di vista economico, ma una opportunità che Dio ci ha offerto per dare più senso alla nostra esistenza. E così, quando la Direzione di una realtà composita e geograficamente frammentata come quella della Fondazione decide di portare un gruppo di operatori che lavorano a vedere e a toccare con mano che cosa facciano i colleghi che mandano avanti la Casa di Accoglienza per malati di Aids, in un fuori provincia che sembra così lontano, la storia che vedono è anche la loro: gente all’opera che accoglie e cura. Cura i malati ma, nel farlo, si prende cura anche e prima di tutto di se stesso.
Torna indietro